Dal libro "Architettura e modernità" - Antonino Saggio


Parte settima - IL SUCCESSO DELL’ARCHITETTURA NEL MONDO: 1988-2000.

Il mondo decostruito

Il compito più grosso della cultura moderna, [è] indicare
l'infinità interdipendenza della cose e delle persone.

Cesare Zavattini, Diario

Nel 1988  al MOMA di New York si apre una mostra con il titolo “Deconstructivist Architecture”. Zaha Hadid, Frank Gehry, Bernard Tschumi, Daniel Libeskind, Peter Eisenman, Rem Koolhaas sono alcuni dei nomi che fecero parte di questa mostra. È un evento di grande successo, momento chiave di un successivo cambiamento culturale ed architettonico che avrà una rilevanza di enorme portata. Sono anni particolari, ricchi di cambiamenti, di aperture a nuovi ideali e prospettive. Numerosi sono gli eventi e i personaggi che lanciano pensieri simbolo di un forte cambiamento: Karol Wojtyla in Polonia e Gorbacev in Russia parlano di libertà, di circolazione delle idee, di trasparenza. Nel 1989 crolla il Muro di Berlino e questo evento rappresenta l’inizio di una nuova era e dà il via ad atteggiamenti mirati alla globalizzazione geografica ed economica che mano a mano prenderà sempre più piede. Nel 1980 Alvin Toffler scrive un libro dal nome “La terza ondata”, definendo in tal modo una fase storica caratterizzata dall’importanza del ruolo dell’informazione nei processi economici e sociali. L’interesse ora si volge al funzionamento, alla rappresentazione di un’architettura che sia parte della comunicazione contemporanea come negli anni 20 dell’era industriale del Novecento il valore architettonico stava nell’avvicinarsi alla macchina, il suo simbolo.
È in questo quadro che figure come Daniel Libeskind o Steven Holl costituiscono un nuovo modo di vedere il mondo ed è in questo quadro che possono essere compresi a fondo ed apprezzati.

Daniel Libeskind è un architetto di nuovo stampo. Ha avuto una formazione musicale ed artistica e solo successivamente si avvicina all’architettura. Il luogo particolare e sede della sua architettura e del suo successo è Berlino, la sua città natale. Qui Libeskind vive il dramma passato ma non ancora superato e nel Museo ebraico dà un volto alla tragedia. Il mondo da lui rappresentato è un mondo fatto di processi, di sistemi, di strati distrutti che mostrano una lacerazione che non si può risanare. Lo schema del museo diventa una linea spezzata che procede a zig-zag sul terreno. A questa freccia si sovrappone un’altra figura rettilinea che incrociandola la mette in ulteriore tensione. Internamente il museo si vive con percorsi lineari che incrociano labirinticamente difficili bivi; gli spazi sono anche a doppia altezza, si scende poi si sale, ci si immerge nelle fratture, in spazi ora chiusi ora vertiginosamente ampi. I volumi che circondano lo spazio interno sono tagliati da linee diagonali, facendo vivere la luce e poi il buio. Il museo ebraico non è solo esposizione ma un’esperienza che racconta un dramma, che “comunica”. Il simbolismo diventa il motore di sviluppo dell’intera spazialità.

Steven Holl nasce nel 1947 in una cittadina dello stato di Washington. Dopo aver studiato in università americane non rinomate si trasferisce a New York negli anni 80 e si comincia a fare strada, da lavori modesti a grandi opere di importanza internazionale. “Holl è partito da alcune avversioni rispetto alla ricerca architettonica a lui contemporanea e ha cercato una via che radicasse concettualmente il perché dell’opera al suo farsi” (Architettura e modernità – Antonino Saggio). Il suo pensiero si basa su alcuni punti di base: tra questi il forte interesse fenomenologico che si incentra sull’idea che il progetto debba basarsi su esperienze dirette, fisiche e psicologiche come i percorsi, i flussi, la luce e i materiali dell’architettura. Altro punto cardine del pensiero di Holl è la comunicazione attraverso fenomeni di metaforizzazione che riprendono elementi simbolici o immagini allegoriche riproponendole nei progetti architettonici. Holl si concentra molto anche sull’idea conscia del ruolo che gli spazi aperti hanno e della loro relazione con gli edifici che si rapportano reciprocamente andando a creare il progetto nell'insieme.  Holl quindi non concepisce opere che non abbiano un’ immagine metaforica ripresa o nell'articolazione degli spazi o nell'organizzazione dei percorsi o nelle diverse funzioni relazionate tra loro e con il contesto o tutte queste cose messe insieme. Ci deve quindi essere un principio di base che crea un filone che faccia da cardine all’opera e che viene ripreso metaforicamente in ogni sua parte. 
Manifestazione esemplificativa della sua idea di progetto viene mostrata dall’opera “Kiasma”, un museo che si trova ad Helsinki in un’area interna ad una zona urbana tra il Parlamento , la Stazione Ferroviaria e la Casa Finlandia di Aalto. Il progetto è composto da due corpi che si intersecano variando le loro dimensioni adattandosi al contesto urbano in cui si trovano e alle opere architettoniche rilevanti limitrofe. L’opera è ricca di significato metaforico a partire dal nome Kiasma che è, di per se, una figura retorica nella quale "si dispongono in ordine inverso i membri corrispondenti di una frase" e allo stesso tempo "il punto dove le fibbre dei due nervi ottici si incontrano". Questo significato metaforico è ripreso nella forma dei due corpi che dall’intreccio dei flussi, come nervi, danno vita all’architettura. Altri rimandi metaforici sono la forma in generale che ricorda la circolazione  su ferro o gomma e l’inserimento dell’acqua che passa attraverso il sito ed è accolta in una vasca del museo,  dalle preesistenze limitrofe e dal lago Kampii a pochi metri.

In tale contesto non può che mutare anche il discorso legato alle aree dismesse, svuotate progressivamente dagli usi industriali, ormai decentrati in altre parti del mondo, per lasciar spazio ai luoghi del terziario. Berlino è anche in questo caso il teatro di tale atteggiamento, legandosi perfettamente alle volontà in essere di ricucire e ricompattare la città dopo la caduta del muro. È quello che accade in un lotto di confine tra la zona est e la zona ovest della città, dove in breve tempo Renzo Piano realizzerà la celebre Potsdamer Platz. Già famoso per il suo intervento nel cuore di Parigi con il Centre George Pompidou, lo studio professionale di Renzo Piano si distingue sin dal principio per essere un laboratorio di ricerca di grande avanguardia. Nasce l’idea del Mixitè dell’innovazione tecnologica ed edilizia, del rinnovamento urbano e dei nuovi modi di vivere e lavorare all’interno della città contemporanea. Siamo in un mondo dove le tradizionali funzioni del vivere e del lavorare si intrecciano e si sovrappongono, non permettendo più una netta divisione spaziale. Renzo Piano presenta l’arte non più come oggetto di contemplazione, ma come fonte di lavoro e di produzione.
In questo programma città come Berlino e Parigi, con un "rilascio dell'architettura come nuova guida dei sistemi comunicativi ed economi della città contemporanea", entrano in competizione tra loro per affermarsi come metropoli, per essere centri pulsanti di attività terziarie.


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